Gli eroi: utili o no?


Lara Banchieri, psicoterapeuta
Alain Scherrer, ingegnere appassionato di supereroi dei fumetti
Serena Baggi,
capo reparto neurologia/stroke unit all’Ospedale Regionale di Lugano
Maurizio Binaghi, storico e autore di “La Svizzera è un paese neutrale (e felice)” (ed. Laterza)

Diego Barberis, cavaliere della strada dopo avere salvato due bambine dalla morte
– Pubblicato su “Cooperazione” (COOP) N. 27 del 3 luglio 2025 | La Tavolata
Testo Patrick Mancini, Daniele Pini Foto Sandro Mahler

Nella storia, l’essere umano ha sempre avuto bisogno di eroi. E oggi più che mai. Ma perché? Cinque ospiti ne discutono attorno a un tavolo dell’Osteria della Posta di Porza.

Maurizio Binaghi

«L’eroe solitamente ha una funzione pedagogica, è un’immagine che ci arriva dall’infanzia».

Lara Banchieri

«La figura dell'eroe serve soprattutto a infonderci coraggio».

Alain Scherrer

«Dei supereroi mi affascinano soprattutto le vicissitudini personali più che le gesta eroiche».

Diego Barberis

«Mia moglie è l’unica persona che non mi ha mai dato dell’eroe».

Serena Baggi

«Da un eroe ci si aspetta sempre il massimo».

«Non ci dormivo»


«Io sono diventato eroe per caso. Non sono andato a cercarmela quell’etichetta. E a volte mi è stata scomoda, tanto da non dormirci la notte». Diego Barberis, a fine anni ’90, salvò due bimbe olandesi da morte certa. Accadde all’altezza di Bodio, sull’autostrada. Dopo che l’auto guidata dal papà delle piccole era finita coinvolta in un incidente e aveva preso fuoco. Barberis col suo gesto di colpo finì sotto i riflettori. «Mi cercarono i media. Ricevetti onoreficenze e premi, tra cui quello di Cavaliere della strada. Però io mi sono sempre sentito normale. Erano gli altri a chiamarmi eroe. Questa cosa mi faceva quasi imbarazzare». «Ecco perché sono sempre stato scettico sulla figura dell’eroe – ammette lo storico Maurizio Binaghi. – È qualcosa di costruito in modo da essere funzionale in un determinato contesto. Nella storia, l’eroe è servito a mille scopi; in particolare a consolidare lo spirito nazionale, come ci insegna l’esempio di Guglielmo Tell in Svizzera. È quasi sempre strumentalizzato. In un certo senso questa strumentalizzazione l’ha vissuta anche Diego: il suo gesto è stato nobile, unico. E su questo non c’è dubbio. Ma poi ne hanno approfittato tutti. Ad esempio i media. In tanti si sono nutriti del suo gesto».


Dimenticati in fretta


Lara Banchieri, psicoterapeuta, annuisce. «Abbiamo bisogno di eroi. Da sempre ci fanno sentire al sicuro in un mondo pieno di minacce e di incognite. Hanno una funzione psicologica di protezione. Ma, per quanto mi risulta, li dimentichiamo anche in fretta». Incensati e poi abbandonati. È capitato agli infermieri dopo la fase acuta della pandemia da Covid. Serena Baggi, capo reparto neurologia/stroke unit all’ospedale Regionale di Lugano, ne è testimone. «Essere dipinti come eroi sul momento ci ha spronati. Eravamo tra i pochi a dover lavorare per forza. E lo facevamo con coraggio, non sapendo bene come si comportasse quel nemico invisibile. Ricordo quando, nei primi tempi, dovevo chiedere a qualcuno di spostarsi a Locarno, nell’ospedale Covid dell’EOC per eccellenza, perché c’era bisogno. Ogni volta che ricevevo un “sì” pensavo di avere davvero un eroe dall’altra parte del telefono». Col tempo tuttavia questa definizione è diventata quasi fastidiosa per chi era al fronte. Ed è la stessa Baggi a confermarlo: «Oggi diversi collaboratori si pongono domande. Cinque anni fa gli infermieri erano così importanti da essere considerati eroi. Appena è stato possibile, però, c’è chi li ha rimessi in discussione. Quindi eroi sì. Ma fino a un certo punto. Finché ce n’era bisogno o finché c’era la paura».

Arriva Superman


Una chiave di lettura del fenomeno la fornisce Alain Scherrer, appassionato di fumetti, che ricorda come siano nati i supereroi. «Negli anni ’30, dopo la prima guerra mondiale e nel periodo in cui l’America affrontava la Depressione, c’era scoramento e l’essere umano cercava speranza». E così ecco Superman e Batman. «Un connubio che rappresentava il bene, la giustizia e l’altruismo. Abbiamo bisogno di modelli del genere nei momenti bui». «D’altra parte – rammenta Binaghi – l’eroe nasce nella mitologia classica come semidio e mediatore tra uomini e dèi, ma in casi eccezionali può anche essere una persona comune, capace di atti straordinari. Col tempo gli eroi sono stati laicizzati, tuttavia il senso resta simile». Ma qual è la differenza tra un eroe e un modello di riferimento? «È tutto relativo – replica lo storico. – Perché uno specifico eroe ha senso solo all’interno di un determinato tessuto sociale e culturale. Se torniamo al tema degli infermieri durante il Covid, qualcuno potrebbe dire che in fondo quello era il loro lavoro, il loro compito, e che il termine eroi era esagerato. Ma in quel preciso periodo una definizione del genere dava un senso a quanto stava accadendo. Serviva».

Sentimenti contrastanti


Barberis introduce un’altra questione. «Una volta che ti appioppano la definizione di eroe, mica puoi essere perfetto davvero. In tutti questi anni ho visto altri incidenti sulle strade e lì non ho potuto fare niente». «È un po’ questo il problema – annota Baggi –. Da un eroe ci si aspetta sempre il massimo, la perfezione». «Invece – interviene Scherrer – una persona come Diego ha il diritto di avere delle fragilità, di continuare a fare anche degli errori». «Quando penso al mio gesto – confessa il salvatore delle due bimbe – ho sentimenti contrastanti. Da una parte mi sento un incosciente. Quel giorno tutti erano paralizzati e io sono l’unico che si è lanciato nell’auto capovolta che prendeva fuoco. Poi però sono anche triste. Avrei voluto mantenere i rapporti con quella famiglia. Non ho figli e simbolicamente a quelle bambine ho dato una seconda vita. Ho scritto loro delle lettere, ma sono sempre stato ignorato. Un eroe può essere anche risentito. Può provare sentimenti negativi».


Roba da maschi


«Proprio così – gli fa eco Baggi. – Anche noi infermieri, per la nostra società e in quel periodo preciso, siamo stati eroi. Adesso però c’è chi è infastidito per la mancanza di gratitudine da parte di alcuni. La delusione è umana. E l’eroe perfetto esiste solo nella mitologia». «Tra l’altro – precisa Banchieri – storicamente l’eroe è maschio. Il Covid ha però messo in risalto che anche le donne possono essere eroine». «Culturalmente – dice lo storico – il maschio è sempre stato visto come quello che combatte e che deve difendere la donna come l’addetta alla maternità e alla cura». «Fa un po’ male pensare che è servita la pandemia per far capire che anche le donne compiono grandi gesta – commenta la psicoterapeuta –. In poco tempo però si è tornati a una visione maschilista del concetto di eroe. Purtroppo è inevitabile che sia prevalentemente il maschio a essere associato ad azioni esaltanti. In questo caso sono le donne eroine che potrebbero sentirsi frustrate».

Il lato umano


«Nei fumetti capita spesso di vedere eroi frustrati – ammette Scherrer. – Il mio personaggio preferito è Spider Man: nelle prime storie è un liceale sfigato che fa cose fuori dal normale. Addirittura da alcuni è percepito come una minaccia. La mancanza di gratitudine la percepisce anche l’uomo ragno, che ne soffre». Scherrer si dice affascinato più dalle vicissitudini personali che dalle gesta epiche dei supereroi. «Mi interessano gli aspetti che possono avvicinare il supereroe a noi. D’altra parte il fumetto, inizialmente pensato per alleggerirci dalla quotidianità, si è sviluppato in modo profondo, facendoci vedere la realtà con occhi diversi. Dopo l’attentato alle torri gemelle di New York, ad esempio, uscì una storia della Marvel in cui tutti i supereroi apparivano impotenti e sopraffatti di fronte all’accaduto. I loro poteri si rivelavano nulli. E i veri eroi erano le persone comuni come i pompieri e i soccorritori».

Comuni mortali


Banchieri fa leva sul concetto di normalità. «La figura di eroe in fondo serve anche per infonderci coraggio quando si è in situazioni difficili. E allora anche una mamma che da sola alleva cinque figli e allo stesso tempo lavora per crescerli può essere considerata un’eroina. Oggi l’eroe non ha più connessioni col divino. Riguarda noi stessi, i comuni mortali. A tal punto che si arriva a mitizzare anche personaggi negativi, trasformandoli in eroi. Ci sono assassini in carcere che ogni giorno ricevono lettere di ammirazione. Dietro ciò c’è un meccanismo contorto. Per cui si è entusiasti di qualcuno che è “riuscito a fare” quello che altri non avrebbero mai fatto». «L’eroe solitamente ha una funzione anche pedagogica – riprende Binaghi. – Se ci pensiamo bene, è un’immagine che arriva dall’infanzia. Quando si è piccoli si cerca qualcuno che ci faccia sentire tutelati e sicuri. Ogni società sente il bisogno di sicurezza e di modelli: anche la rivoluzione russa, nata con ideali di uguaglianza, ha creato i suoi eroi e un culto della personalità, elevando figure come Lenin e Stalin a semidei. Come se anche in quel tipo di società ci fosse la necessità di avere qualcuno a cui aggrapparsi».

Effetto bulimico


È così che si arriva a una specie di bulimia di eroi. «Oggi – chiosa Banchieri – il termine è inflazionato. Tu parli coi giovani e ti rendi conto di quanto siano ammaliati dai calciatori e dagli influencer. Per loro quelli sono eroi. E se è vero che tutti siamo stati giovani, e che il fenomeno della mitizzazione c’è sempre stato, è altrettanto vero che le nuove tecnologie hanno reso facile creare un eroe. Sui social tutti sono felici, belli. E lo ostentano». «Ma uno sportivo o un cantante non possono essere considerati eroi – tuona Scherrer. – E lo dico io che da anni canto le canzoni di Vasco Rossi come frontman della Vasco Jam. Vasco è soprattutto un uomo come tutti noi. Amo le sue canzoni, ma l’eroe è un’altra cosa. Presuppone, dal mio punto di vista, l’idea di mettersi al servizio degli altri, a costo di sacrificare la propria vita».

Il peso delle parole



Binaghi interviene agganciandosi a quanto detto dall’appassionato di fumetti. «I supereroi da sempre si mascherano. Non vogliono farsi riconoscere, contrariamente a chi spopola sui social. Non cercano la popolarità o il denaro». E allora viene da girarsi ancora una volta verso Diego Barberis. Il suo è probabilmente quello che più si avvicina a un atto eroico? Lui scuote la testa. «Le parole hanno un peso – sospira –. Quando dai dell’eroe a qualcuno è come se lo investissi di una missione. Lo metti sotto pressione. E questo non va bene. Quello che conta è la spontaneità. Adesso che ci penso, mia moglie, che era presente il giorno dell’incidente e ha visto tutto, mi ha sempre stimato. Ma è probabilmente l’unica persona che non mi ha mai dato dell’eroe».

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